Brevemondo: gli Stati Uniti hanno bombardato l'Iran
Dopo giorni di tentennamenti, Trump ha dato l'ordine di attaccare i siti nucleari iraniani. Il Medio Oriente torna di nuovo nell'agenda americana
Questo invio di Brevemondo sarà interamente dedicato alla guerra in Iran, che se nei primi giorni ha coinvolto soltanto Israele e la Repubblica islamica, da questa notte tocca estremamente da vicino anche gli Stati Uniti. Il presidente Donald Trump, infatti, ha annunciato alle due di notte italiane che l’aeronautica statunitense ha colpito i siti di Fordow, Natanz e Isfahan, tre dei principali snodi del programma nucleare di Teheran. I primi due sono strutture dove avviene l’arricchimento dell’uranio, questione sulla quale si dibatte da tempo e che, quantomeno formalmente, ha scatenato in primo luogo l’intervento israeliano dei giorni scorsi.

Serve fare un passo indietro. Come scritto nell’invio della settimana scorsa, Israele ha colpito l’Iran dopo voci di un possibile intervento che avrebbe mirato proprio a eliminare - o, quantomeno, danneggiare - i siti nucleari del Paese. In aggiunta a questo, l’esercito israeliano ha eliminato numerosi scienziati e tecnici che lavoravano al programma e decapitato buona parte della linea di comando militare della Repubblica islamica.
Ciò perché, sin da subito come chiarito dal primo ministro Benjamin Netanyahu, l’intento di Israele non è soltanto quello di impedire che Teheran potesse sviluppare armi nucleari, ma anche facilitare il crollo del regime islamico sorto nel 1979 a seguito della cacciata dello shah e dell’insediamento dell’ayatollah Khomeini.
“L’obiettivo dell’operazione israeliana è di sventare il programma nucleare del regime islamico e la minaccia dei missili balistici - ha spiegato subito dopo gli attacchi - e mentre raggiungiamo questo obiettivo, stiamo anche preparando la strada per la vostra libertà”. Un appello rivolto agli iraniani, contro cui Netanyahu ha detto di non voler assolutamente muovere guerra, perché il conflitto è contro la Repubblica islamica: “coraggioso popolo iraniano, la luce sconfigge l’oscurità”.
Contestualmente, l’Iran ha risposto agli attacchi israeliani, riuscendo talvolta ad aggirare lo scudo antimissile garantito anche dal supporto degli Stati Uniti. Su tutti, nei giorni scorsi, Teheran ha colpito l’ospedale della città di Be’er Sheva, sollevando nuovamente il tema del coinvolgimento della popolazione civile negli attacchi missilistici. Del resto, tra la Striscia di Gaza e anche l’Ucraina, negli ultimi anni simili operazioni sono sempre più ricorrenti. Da parte sua, comunque, Teheran ha chiarito come l’attacco fosse in realtà rivolto a una struttura militare israeliana che si trova in prossimità dell’ospedale stesso.
In ogni caso, la situazione si è protratta in questi termini per poco meno di una decina di giorni. Durante questo periodo, gli Stati Uniti sono rimasti sullo sfondo. Al di là dell’assistenza di intelligence e sulla difesa aerea di Israele, Washington è rimasta distante dal conflitto: nelle ore immediatamente successive all’attacco, Trump è rimasto insolitamente in silenzio e il primo a rispondere a nome dell’amministrazione è stato Marco Rubio, il segretario di Stato. Dunque, dal 13 al 22 giugno, che cosa è cambiato?
Trump ha ondeggiato molto, per convinzioni personali e per convenienze politiche. Il presidente è infatti rimasto sospeso tra la volontà di mantenere viva la pista diplomatica e l’intervento diretto, che avrebbe potuto chiudere i conti una volta per tutte. Trovare un accordo, per Trump, era l’opzione preferita: dopo aver stracciato l’intesa del 2015 sul nucleare iraniano, firmata anche da Regno Unito, Francia, Germania, Unione Europea, Russia e Cina, le sue intenzioni erano quelle di trattare con Teheran. Per questo, ha affidato a Steve Witkoff, un avvocato di New York, il ruolo di inviato per il Medio Oriente. Questi ha partecipato ad almeno cinque incontri con la delegazione iraniana in Oman, ma senza successo. Vuoi per la sua inesperienza, vuoi perché l’ayatollah Khamenei, nonostante la beautiful letter che Trump gli ha inviato, ha sempre rifiutato un accordo.
Di fronte allo stallo diplomatico e all’attacco israeliano, che ha verosimilmente approfittato delle sabbie mobili in cui erano finiti statunitensi e iraniani, Trump ha gradualmente cambiato idea. Il successo dell’operazione israeliana e la possibilità di mettere in ambasce la Repubblica islamica, con il passare dei giorni, sembrano aver convinto il presidente degli Stati Uniti. Che, come avrete sicuramente letto, potrebbero dare la spallata decisiva al programma nucleare iraniano con le bombe bunker buster, ovvero enormi ordigni da quasi 14mila chilogrammi in grado di perforare le difese di un sito come Fordow, scavato interamente in una montagna.
Adesso, l’ingresso di fatto degli Stati Uniti in guerra pone diverse domande. A cominciare dalle conseguenze non solo sul conflitto tra Israele e Iran, ma anche sull’intero Medio Oriente. E, ancora, gli effetti di un ritorno armato di Washington in un’area storicamente delicata per la politica estera statunitense: lo stesso Trump, per decenni, ha criticato l’approccio dei suoi predecessori, citando i casi dell’Iraq, ma anche della Siria e della Libia. Molti suoi sostenitori hanno già espresso contrarietà sul coinvolgimento degli Stati Uniti. Vedremo.
Alla prossima.